Nel 2022 SCOA – The School of Coaching compie 20 anni! Per questa occasione abbiamo intervistato il suo fondatore Gian Franco Goeta, per conoscere cosa lo ha portato a creare una Scuola di Coaching. Gian Franco ci ha raccontato il contesto in cui SCOA è nata e i principi su cui ha scelto di strutturare la metodologia.
Perché hai deciso di fondare SCOA – The School of Coaching? Quali passaggi ti hanno portato alla sua creazione?
Ho sempre avuto grande interesse per il tema dell’apprendimento e dei metodi che possono sostenerlo. Già negli anni del liceo soffrivo molto il metodo di insegnamento prevalente: ancorato ad una ricezione passiva della conoscenza, attraverso lezioni esclusivamente frontali, che producevano un accumulo di nozioni da ripetere per dimostrare il proprio sapere durante le interrogazioni, piuttosto che la capacità di pensare con la propria testa e una vera crescita.
Sono rimasto molto colpito quando, durante una permanenza estiva in una famiglia danese, ho scoperto, andando nella scuola della mia coetanea, un modo di insegnare molto diverso, basato sul continuo dialogo non solo tra docenti e discenti e sul dibattito fra questi ultimi, seduti a cerchio attorno all’insegnante e felici di parlare ed esprimersi liberamente (cosa vietata nella mia scuola). Fu un’illuminazione, che purtroppo nella mia scuola in Italia ebbe solo un unico parziale riscontro in un insegnante che lasciava la cattedra e veniva in mezzo a noi per aprire dialoghi coinvolgenti. Era il professore di filosofia, decisivo nella mia scelta successiva di laurearmi in questa materia.
In queste occasioni ho realizzato l’importanza non tanto dei contenuti, ma soprattutto della relazione tra insegnanti, allievi e fra questi, e che l’apprendimento è tanto più solido e profondo quanto più le persone partecipano attivamente.
Ne ebbi poi la conferma anche nelle mie prime esperienze professionali: giunto all’Olivetti, fui invitato dal mio capo a passare i primi sei mesi negli uffici delle funzioni centrali e in tutti gli stabilimenti del Canavese, parlando con chi ci lavorava. Riuscii a toccare con mano e conoscere da dentro l’organizzazione, il suo funzionamento, i ruoli e processi, e appresi sul funzionamento di un’azienda più di quanto non avrei imparato in un master teorico.
Successivamente, ebbi l’occasione di applicare tutto ciò che avevo appreso in queste mie esperienze, nell’insegnare il corso di Organizzazione all’Università Bocconi, prendendo spunto nello specifico da Chris Agyris, fondatore della teoria della Learning Organization e mio Tutor all’Università di Harvard. Con gli studenti, tra cui anche l’attuale Managing Partner di SCOA Roberto Degli Esposti, nacque una relazione profonda e reciproca soddisfazione per l’apprendimento realizzato insieme.
Puoi raccontarci l’incontro con il Coaching vero e proprio? Quali furono le tue prime esperienze professionali da Coach?
Nel 1994 affiancai la responsabile di un grande progetto del Comune di Milano, per supportarla nelle sfide professionali che via via le si presentavano. Costruii la mia metodologia come Coach di questa persona, sperimentando gli apprendimenti e i metodi che avevo vissuto nelle esperienze citate sopra e in quelle come partner di ODI, una società specializzata in Total Quality Management, in cui appresi le tecniche di Problem solving di gruppo nei progetti svolti con Sergio Balzani, persona e professionista di grande qualità purtroppo di recente mancato, che ricordo con gratitudine e affetto. Poi seguii come Coach la popolazione manageriale della Disney Italia e di alcune altre multinazionali, grazie a questo più aperte verso metodi innovativi, e così il mio metodo si affinò e prese corpo.
Che cosa poi ti ha portato a decidere di fondare una Scuola di Coaching?
Negli anni ‘90, quando proponevo questi percorsi, i miei interlocutori rimanevano sorpresi di fronte a qualcosa per loro completamente sconosciuto. C’era molta diffidenza, identificavano lo sviluppo delle persone con la formazione in aula. Le uniche manifestazioni di interesse mi arrivarono dalle multinazionali, che conoscevano questa disciplina perché all’estero era già diffusa. All’epoca nemmeno io lo chiamavo ancora Coaching: offrivo un “sistema di sviluppo individuale”, anche se aveva già tutte le connotazioni del Coaching one-to-one.
Poi nel maggio 2002, organizzai un convegno sul Coaching. Inaspettatamente, mi trovai 200 iscritti: compresi che di colpo il Coaching era uscito dai sotterranei in cui era confinato negli anni precedenti ed era diventato un argomento di grande interesse. Allora capii anche che c’era un enorme bisogno di una struttura di riferimento che costruisse principi, metodi, standard professionali per una comunità allo stato nascente e offrisse percorsi formativi a chi voleva apprendere il mestiere di Coach. Fu così che decisi di creare una Scuola e un Master attraverso cui le persone imparassero a fare i Coach: una mattina mi venne in mente il suo nome, SCOA, che riprende le iniziali di Scuola di Coaching e mi richiamava “scoa” con la dieresi sulla “o”, il termine per dire scuola a Genova, la città dove sono nato.
Quali sono dunque i fondamenti su cui hai deciso di strutturarla?
Fu la grande chance della mia vita: costruire una scuola sulla base di quei principi che avevo sperimentato nelle varie tappe della mia vita – e che mi sono sforzato di applicare nei corsi della scuola, in quanto straordinariamente coerenti con i princìpi del Coaching stesso.
Perché entrassero veramente e si sentissero a casa nella dimensione del Coaching, i partecipanti ai miei corsi dovevano vivere ogni volta e in tutto il percorso, il valore dell’ascolto di sé e dell’altro, della ricerca libera da soluzioni precostituite e da pregiudizi, del dialogo, dell’esplorazione di sé, della sperimentazione. Solo così potevano acquisire concretamente le competenze del Coach e maturare la nuova identità professionale e personale. Tutto questo lo chiamo “collective learning”: l’idea di base è che la conoscenza si costruisce insieme, attraverso uno scambio attivo, favorito dalle continue esercitazioni pratiche e dal debrief di quanto successo, delle consapevolezze acquisite e dei quesiti aperti.
Con Trevor Boutall, grande esperto nella costruzione di modelli di competenze, e con l’aiuto di Giorgio Piccinino, partner del Centro Eric Berne, identificammo le competenze del Coach attraverso interviste ai partner che già svolgevano la professione, li declinammo in comportamenti e in standard professionali. E con l’aiuto di Guido Faraggiana, Partner SCOA e docente di Strategia del Politecnico di Torino, distillammo le competenze essenziali per il Business Coach e li declinammo in princìpi professionali e comportamenti. Su questa base insieme ai vari docenti strutturammo l’architettura dei contenuti e metodi dei vari moduli del Master, in modo che agevolassero lo sviluppo di queste competenze.
Sulla base delle mie esperienze come partecipante per oltre vent’anni a un gruppo di Bionergetica condotto da Alberto Torre, che mi ha consentito di sperimentare sulla mia pelle come gli individui cambiano e crescono, ho costruito il modello cardine nella fase di sostegno allo sviluppo del Coachee, denominato Modello PR.O.V.A. È un modello che consente di procedere in ogni sessione verso un obiettivo aperto, da definire col Coachee, fruendo di alcuni strumenti e passaggi di riferimento, agibili liberamente a seconda del procedere del processo.
Parliamo allora del PR.O.V.A, che tu stesso definisci il “modello cardine” della Scuola. Puoi raccontarci le 4 fasi di cui è composto: perché sono state pensate così e quali sono le peculiarità del modello?
Innanzitutto, è espressamente orientato all’azione. L’essenza del modello è arrivare preparati all’azione, che secondo me è anche l’essenza del Coaching stesso: un allenamento in vista della partita sul campo.
Le quattro fasi hanno una struttura molto naturale. C’è la fase iniziale di esplorazione, in cui si esplora la situazione in cui si trova il Coachee, per comprendere che cosa prova e cosa lo spinge a muoversi da quella situazione, a cambiare. Diventare consapevoli e saper verbalizzare le proprie emozioni significa saperle gestire, senza rimanerne in balìa. L’obiettivo in questa fase è mettere a fuoco il problema e anche capire se effettivamente il Coachee ha la motivazione e lo spazio di intervento necessari per affrontare con successo la fatica e sostenere i costi che il cambiamento comporterà. Questo è possibile solo analizzando apertamente i vantaggi garantiti dalla condizione di partenza, oltre ai costi che questa comporta.
A questo punto si passa alla seconda fase, in cui il Coachee si proietta in avanti, immaginando e riflettendo su cosa potrà conquistare mettendo in atto il cambiamento, ed esplorando ostacoli e forze propulsive nel percorso. Questo porta alla terza fase, in cui il Coachee recupera esperienze vissute che gli consentono di declinare in comportamenti specifici questo cambiamento. Così si passa al concreto: il valore è nei comportamenti – è anche il motto di SCOA.
Infine, la quarta fase, che si conclude con la definizione chiara di un piano di azione da applicare sul campo. Questa fase dà l’opportunità alla coppia Coach-Coachee di sperimentare l’azione vera e propria, durante la sessione: insieme al Coach, il Coachee simula la situazione reale in cui dovrà agire, per coglierne le difficoltà, sentire le proprie emozioni e allenarsi. Questa fase è ciò che differenzia il metodo SCOA da quello di altri: si fa un allenamento vero.
Come si conciliano la libertà e l’imprevedibilità di un modello, che come tu stesso hai dichiarato, è aperto e poco direttivo, con linee guida e fasi invece ben definite?
I due pilastri sono il punto di partenza e quello di arrivo: partendo dall’esplorazione di una tua situazione concreta si arriva a decidere come ti vorrai e potrai comportare nella vita reale, per soddisfare meglio i tuoi bisogni. Quello che succede in mezzo dipende da come va la sessione, ma comunque hai una bussola che ti aiuta a scegliere come procedere. È come quando vai in barca a vela, hai la bussola ma poi devi saper interpretare il vento. La condizione è che si attivi una costruzione comune tra Coach e Coachee: questo dipende dalla relazione di fiducia instaurata, che consente una ricerca aperta e uno scambio reciproco. Questa condizione si costruisce attraverso le competenze relazionali sviluppate sin da subito nel percorso del Master (oggi chiamato Programma per Senior Practitioner in Business Coaching). La stessa cosa avviene con le domande potenti, altro pilastro del Coaching: sono quelle che aprono nuovi orizzonti, inaspettati, e fanno svoltare. Ma non si possono pre-definire.
Grazie Gian Franco. È interessante conoscere l’origine e le motivazioni profonde che stanno dietro al modello e alla metodologia di SCOA. In particolare, la centralità della prassi e del dialogo, che comportano il mettersi in gioco fin da subito e garantiscono un apprendimento reale, al di là di uno sterile aumento della conoscenza, che consente l’acquisizione di competenze, di un “saper fare” e di un “saper essere”. Come percepiscono questo approccio le persone che lo vivono e sperimentano?
In base al mio vissuto e alle rilevazioni dei risultati di apprendimento effettuate, al termine di ogni modulo e al completamento dell’intero percorso, mi sento di affermare che i partecipanti ne sono stati molto soddisfatti e ne riconoscono il potere trasformativo. È significativo il momento di verifica dell’apprendimento, che si svolgeva nell’ultima giornata del Master e oggi in una sessione successiva. Ciascuno faceva un colloquio di Coaching con un Coachee esterno, di fronte a tutti gli altri. Questo era un grande riscontro, perché come raccontavano i partecipanti stessi, riuscivano a gestire un’intera sessione – cosa che prima del Master non sarebbero stati in grado di fare. Molte persone, successivamente, mi hanno detto che questa esperienza aveva cambiato il modo in cui agivano il proprio ruolo in azienda, in cui si comportavano come persone e naturalmente in un colloquio di Coaching.
Oggi sono contento che SCOA continui la sua opera di diffusione della cultura del Coaching, abbia formato centinaia di Business Coach qualificati e che il Senior Practitioner in Business Coaching sia un riferimento in Italia.