«L’eccesso di controllo sul lavoro è un tema imperante nelle nostre sessioni di Coaching» – dice l’Executive Business Coach Cristina Nava.
Nella nostra esperienza di Business Coach è un problema che incontriamo spesso con i nostri Coachee, che si esplica in forme e si esprime in comportamenti anche molto diversi tra loro.
La maggior parte delle volte, la dinamica è questa: il Coachee, un manager, un imprenditore o in generale chiunque il cui ruolo prevede la gestione di altre persone, dichiara di percepire un disfunzionamento nel proprio team, dovuto al fatto che i suoi collaboratori sono “distanti, assenti, poco motivati e ingaggiati rispetto a quanto lo sia lui o lei, non sufficientemente impegnati, nonostante – tra l’altro – si tratti di compiti, attività e progetti così ricchi e sfidanti”. Poi, attraverso l’esplorazione e le domande del Coach, gradualmente la situazione si fa più chiara, vengono alla luce quelle che sono le reali dinamiche del disfunzionamento riscontrato e la sua principale causa: il bisogno di controllo e la paura di perderlo.
Il tema del controllo da parte del capo, o in generale di un manager, sui propri collaboratori è però molto più ampio e complesso. Vi sono diverse tipologie di controllo e, chiaramente, esso non è di per sé negativo ma anzi, in una certa misura e in determinate situazioni si rende necessario al raggiungimento degli obiettivi di business e al buon funzionamento dell’organizzazione.
Controllo: esecutivo o organizzativo?
Innanzitutto c’è il controllo che possiamo definire di tipo “organizzativo”, che le aziende hanno sempre praticato attraverso per esempio gli orari di entrata e di uscita delle persone: tutti lavorano per lo più nelle stesse ore e soprattutto nello stesso posto. Questo tipo di controllo è finalizzato ad assicurare il più possibile equità e correttezza, attraverso l’istituzione di una regola uguale per tutti, ma si collega anche ad una necessità ben specifica: sapere sempre che le proprie persone sono effettivamente al lavoro. Quest’ultima, come forma di controllo già non era pienamente efficace prima (le persone possono essere fisicamente al lavoro ma dedicarsi ad attività extra, oppure comunque perdere molto tempo in chiacchiere e pause caffè – più che da casa!) ma comunque è stata messa a dura prova dal Covid-19: il remote work, adottato tuttora da moltissime categorie di lavoratori, entrato improvvisamente nella quotidianità delle persone e diventato la nuova normalità, ha annullato molte di queste procedure: come so che i miei dipendenti stanno davvero lavorando, se non posso vederle fisicamente, addirittura se con l’adozione del lavoro flessibile possono lavorare anche in orari diversi a seconda delle proprie esigenze personali?
Il lavoro in presenza risponde però anche ad un’altra esigenza, un po’ diversa ma sempre connessa con il controllo: quella di avere a disposizione, in qualsiasi momento, qualunque risorsa di cui io abbia bisogno. So che mi basta uscire dal mio ufficio, attraversare il corridoio oppure cambiare piano per trovare chiunque mi serva. Questo è molto confortante, soprattutto nell’estrema incertezza in cui ci troviamo, in cui gestire la complessità del mondo attuale implica prendere quotidianamente scelte mai prese prima, decisioni dall’esito e dalle conseguenze poco certe. A maggior ragione in tutta questa imprevedibilità, la disponibilità potenziale dei propri collaboratori in un luogo fisico continuo rispetto a quello in cui svolgono loro la propria attività, può dare al manager una grande tranquillità psicologica.
Un altro tipo di controllo è invece quello possiamo dire “esecutivo”, di verifica dell’attività eseguita e degli obiettivi raggiunti: se correttamente orientato, è finalizzato a verificare che le attività comuni stiano procedendo nei tempi e nella direzione prevista, verso la realizzazione degli obiettivi di team o in generale dell’azienda. Spesso questo controllo, però, invece che essere effettivamente un utile e sano monitoraggio dei risultati, si traduce in un controllo sulla modalità in cui i collaboratori eseguono i task, sulla base di “come le farei io”. Dunque, sulla base di un criterio puramente soggettivo. Pensare che la propria modalità di azione o di esecuzione di un compito – quando questo non richieda il rispetto di standard ufficialmente riconosciuti – sia la migliore o addirittura l’unica possibile e pretendere che tutti operino nello stesso modo può essere molto limitante e addirittura controproducente. Non tutte le persone, infatti, danno il meglio di sé nelle stesse condizioni o alla stessa ora del giorno. Inoltre, lasciare le persone libere di esprimersi e accogliere nuovi procedimenti e nuove prospettive può dare spunti di cambiamento e di miglioramento collettivo.
Il controllo è sempre un male?
Senza dubbio, in una certa forma, il controllo è non solo necessario, ma anzi fondamentale per il buon funzionamento dell’azienda, a maggior ragione con lo smart working. Non tanto perché le persone se non sono monitorate costantemente a vista non lavorano: come hanno dimostrato numerosi studi, negli ultimi due anni anzi abbiamo lavorato molto di più, abbiamo ridotto quasi a zero le pause (prima incentivate dall’incontro con i colleghi), abbiamo sfruttato la possibilità di lavorare ovunque e a qualunque ora tanto da farla diventare un’abitudine a lavorare sempre, ininterrottamente. Nelle nuove condizioni, l’importanza del controllo cambia e in un certo senso diventa più diffusa: il rischio elevato di “disperdersi”, di isolarsi nelle proprie mansioni perdendo di vista l’organizzazione, le relazioni in cui siamo immersi, il senso più ampio di ciò che si fa, rischiano di compromettere il senso di appartenenza e l’ingaggio delle persone. Rischiamo così non tanto di produrre meno in termini quantitativi, di tempo speso sul lavoro, quanto piuttosto di produrre in maniera più caotica, meno mirata ed efficace. Allora c’è bisogno di un controllo che potremmo definire “sano”, che ha a che fare con la conoscenza di ciò che accade nelle altre aree operative, di ciò che fanno le altre persone, non solo quelle direttamente a me subordinate o superiori.
La prima chiave è così spostare il focus del controllo dalle persone (cosa che ha a che fare più con l’esibizione del potere) agli obiettivi: diventa così un «controllo delle nostre attività insieme», come dice l’Executive Business Coach Michele Casamassima. Un controllo fatto di feedback, di confronto sull’andamento dei progetti, un aggiornamento, finalizzato cioè ad accertarsi che tutti ci stiamo muovendo compatti e coesi verso gli obiettivi, attraverso la strategia migliore e più efficace.
Da un bisogno personale al bisogno organizzativo
Come abbiamo visto però il rischio è sempre dietro l’angolo. Entrambe le forme di controllo di cui abbiamo parlato, sebbene di per sé necessarie, rischiano di diventare un ostacolo al buon funzionamento dell’organizzazione. Questo principalmente perché le esigenze organizzative dalle quali nascono (assicurare equità, allineamento, raggiungimento degli obiettivi) vengono soppiantate da bisogni personali, soggettivi, che prendono il sopravvento spesso senza che ce ne si renda conto.
Spesso da coloro che rivestono posizioni apicali nelle organizzazioni si sente dire “c’è bisogno”, “è meglio che”, quando in realtà si tratta di una proiezione di un loro bisogno prettamente individuale, declinato come bisogno organizzativo ed elevato a regola valida per tutti. Così l’equità, o l’allineamento delle attività, diventano piuttosto una omologazione a quello che è il modello comportamentale privilegiato dal capo, e non invece quello che sarebbe il modello più efficace per i singoli professionisti, e di conseguenza per l’organizzazione.
Il pericolo di confondere un bisogno individuale con uno organizzativo può far riflettere anche sul tema del possibile ritorno in ufficio, non appena il rischio di contagio lo consente. Ritornare in presenza non è in assoluto una scelta sbagliata, o giusta. Dipende dal tipo di azienda, dal tipo di attività, anche da quali aspetti del lavoro da casa e in presenza si considerano. Quello su cui è così opportuno soffermarsi sono proprio i motivi per cui optare per l’uno o per l’altro, oppure per una modalità mista. Come abbiamo visto prima, il bisogno individuale di sicurezza, di avere tutti i collaboratori sott’occhio e “a portata di mano”, oppure l’eventuale tendenza di elevare a regola organizzativa un comportamento solo perché funziona bene a livello individuale, se non portate a consapevolezza e monitorate, potrebbero influenzare in modo non appropriato anche la decisione sulla modalità di lavoro.
Come dunque evitare che il controllo diventi eccessivo, che sia sull’oggetto sbagliato (le persone e le modalità invece che gli obiettivi e i risultati), che sia generato da bisogno individuali, e che così si riveli disfunzionale per l’azienda?
Le competenze da allenare
Come abbiamo visto c’è innanzitutto un tema di consapevolezza. Spesso queste dinamiche agiscono sotto il livello dell’intenzione esplicita: i professionisti non se ne rendono conto e spostano il problema, come nell’esempio raccontato all’inizio.
Anche una volta riconosciuta la reale causa del malfunzionamento del proprio team, c’è poi il tema della resistenza al cambiamento: come riuscire a contrastare queste tendenze deleterie e letteralmente ‘lasciare andare il controllo’?
Un primo passaggio, come suggerisce l’Executive Business Coach Roberto Degli Esposti, è interrogarsi su quali sono davvero le esigenze dei propri collaboratori: attivare un ascolto empatico, finalizzato a comprendere il sentito degli altri, a conoscere cosa serve loro per lavorare meglio e per essere più motivati, in quali condizioni, modalità e anche orari della giornata si sentono più produttivi.
Serve riflettere poi sulle conseguenze del lasciare il controllo: cosa succede se riduco il mio controllo sugli altri? Le persone davvero comincerebbero a lavorare di meno o meno bene, oppure forse è solo una mia paura? Può addirittura accadere che le persone lavorino meglio, si esprimano più liberamente, siano più ingaggiate e stimolate.
Dall’altra parte però è anche opportuno capire cosa concretamente si può fare per creare le condizioni affinché il controllo possa effettivamente diminuire: cosa può aiutarmi a delegare di più? Possono essere utili feedback o momenti di allineamento più frequenti, oppure capire insieme quali competenze ciascuno deve sviluppare per poter essere davvero più autonomi.