Quali sono i vantaggi dell’avere una figura con competenze di Coaching all’interno delle aziende? In che modo il nostro master Senior Practitioner in Business Coaching può aiutare a sviluppare le skill necessarie? Per avere una visione più completa sul tema, abbiamo scelto di affrontarlo da un duplice punto di vista: quello del Coach e quello di chi sta studiando per sviluppare nuove competenze da portare in azienda. Cristina Nava, Executive Business Coach e Partner di SCOA, e Chiara Corsini, HR Business Partner che ha concluso il nostro percorso di formazione Senior Practitioner in Business Coaching, ci raccontano la loro esperienza.
Raccontateci chi siete e in che modo il Business Coaching si inserisce nel vostro percorso professionale.
Chiara Corsini: Sono HR Business Partner di un’azienda del settore energetico in cui lavoro da sei anni. Nel 2022 ho frequentato il master Senior Practitioner in Business Coaching e la mia sfida per il 2023 è andare avanti in questo percorso e riuscire a ottenere la certificazione EMCC.
Cristina Nava: Dopo tredici anni come imprenditrice nell’area della formazione, ho iniziato a collaborare con una società internazionale nel campo del Coaching e dello sviluppo di risorse. Oggi sono partner di SCOA, Executive Business Coach ed esperta di Change: mi occupo di percorsi finalizzati all’incremento del valore nelle aziende, allo sviluppo dell’intelligenza collettiva, all’emersione dei talenti e alla valorizzazione delle diversità e delle unicità naturalmente presenti in ogni organizzazione.
Il percorso di Business Coaching segna un prima e un dopo nel modo di relazionarsi sul lavoro. Come cambia il modo di fare HR quando si diventa Coach?
CC: Credo che la risposta sia una delle parole della domanda: come. Nella mia esperienza il percorso svolto in SCOA ha radicalmente cambiato il come delle mie azioni: come parlo, come ascolto, come mi pongo in relazione con i miei interlocutori in quanto HR. Aver seguito un corso di formazione mi ha insegnato tecniche che mi hanno resa più consapevole delle modalità e il dialogo è diventato il mio strumento principale. Soprattutto nelle situazioni di conflitto, ho imparato che l’ascolto deve essere più aperto, meno giudicante e più orientato a porre domande. La differenza principale che vedo nel mio “post Senior Practitioner” è che ora nei dialoghi per me l’80% del tempo è dedicato a cercare di capire la posizione dell’altro, solo il 20% a indirizzare il pensiero e dare delle risposte.
CN: Formare una persona per farla diventare Coach può essere molto sfidante: la prima cosa su cui bisogna lavorare è la creazione di un territorio comune su cui muoversi e quando si ha davanti una persona che ha già fatto un lavoro su di sé, che crede nell’enabling the Coaching culture, ovviamente l’inizio è più semplice, in quanto evita il presentarsi di domande che non sono corrette o di atteggiamenti che rischiano di creare confusione. Questo accade perché spesso chi è immerso all’interno di un contesto organizzativo non riesce a comprenderlo a pieno: il percorso di Coaching lavora molto sul self management, soprattutto con un metodo esperienziale come quello in cui crede SCOA, e questo aiuta a distaccarsi, a guardare alle situazioni con maggiore neutralità e quindi a comprenderle e gestirle meglio.
Nel percorso per diventare Coach, si può toccare con mano quanta fatica e impegno serva per arrivare a un cambiamento. In quale aspetto del percorso avete sentito di più questa fatica e come l’avete gestita?
CC: Per me, la fatica più grande che ho sperimentato è stata legata al post-master in SCOA, quando in azienda ho iniziato il mio percorso anche come Coach e non più solo come HR. È stato complesso non mischiare i ruoli tra ciò che deve fare un Coach e ciò che deve fare un HR e nonostante io ne avessi consapevolezza non è sempre stato facile trasmettere questa differenza al mio interlocutore. Far sì che le persone si rivolgessero a me come HR e non come Coach (o viceversa) è stato il passaggio più difficile. Ho dovuto ridefinire i confini con chi si rivolgeva a me, ma in alcuni casi il rischio era che l’interlocutore si allontanasse, perdendo il filo della fiducia e della relazione, che è complicato da riprendere. La consapevolezza che ho acquisito nel percorso di Coaching mi ha dato gli strumenti per trovare il mio modo di mantenere la giusta distanza tra i due ruoli: la soluzione che funziona per me ad esempio è non fare da Coach alle persone per cui sono anche direttamente HR, ma solo a persone di un’altra business line.
CN: Nella mia vita il cambiamento è sempre stato un driver importante perché sono una persona curiosa e costantemente alla ricerca di nuovi stimoli, quindi la fatica in questo la sento poco, anche se percepisco i rischi e le paure che il cambiamento può causare. Durante il mio percorso di formazione da Coach avevo già delle collaborazioni. È stata proprio la voglia di portare lo stesso impatto che il cambiamento aveva su di me a farmi andare avanti, decidere di svilupparmi come Business Coach e di fare questo come professionista. Ho scelto di rimanere in Performant perché mi interessa l’approccio sistemico all’organizzazione, proprio della metodologia che ho studiato e che agisco ogni giorno nel fare Coaching in azienda.
Se vi si chiedesse di descrivere l’utilità pratica di un percorso di questo tipo, quale aspetto mettereste in luce?
CC: La praticità non sta solo nel fare le cose, ma anche nel pensarle, nel rifletterci e nell’essere consapevoli di cosa facciamo e come lo facciamo. L’utilità pratica che mi ha lasciato il percorso di formazione da Coach è stata insegnarmi a uscire dallo schema e ad agire supportata da una riflessione su ciò che faccio. E riflettere significa anche capire quando è il momento di stare in silenzio. Ad esempio, mi è capitato di gestire le dimissioni di un dipendente: non è una situazione straordinaria, ma in quel caso è stata improvvisa e inattesa, tanto che il capo della persona che voleva dimettersi aveva reagito con estrema frustrazione. Ho organizzato un incontro a cui il collaboratore si è presentato con un forte atteggiamento di chiusura, dicendo che ormai la decisione era stata presa e non c’era più niente da dire. Il suo atteggiamento stava avendo un’influenza negativa sul mio stato d’animo, ma nel momento di difficoltà mi è tornato in mente un insegnamento del Senior Practitioner in Business Coaching: “il silenzio è uno strumento potente se usato consapevolmente”. Ci ho provato: sono stata zitta, guardandolo negli occhi, per un (lunghissimo!) minuto e ho usato questo tempo per per centrarmi, comprendere ciò che mi stava infastidendo e gestire quel senso interiore per non renderlo un’emozione “killer” per la situazione. Alla fine, dopo aver capito le sue esigenze, ho organizzato un ulteriore incontro che includeva anche il suo capo e il collaboratore ha ritirato le dimissioni, quindi il risultato è stato positivo. Ma se non avessi avuto a disposizione le capacità che ho appreso nel mio master, quindi 1) l’importanza del silenzio, 2) la capacità di fare domande e 3) la gestione emotiva, sarebbe andata allo stesso modo? Probabilmente no.
CN: Nel libro Time to Think, Nancy Kline parla di come la qualità di ciò che l’essere umano fa dipenda dalla qualità del pensiero, prima del fare, e di come essere consapevoli di questo possa portare a un cambiamento enorme. È un approccio che ha un impatto sulla vita personale, non solo su quella lavorativa: avere un pensiero di qualità, prima di fare, porta ad essere più liberi e proattivi all’azione.
Qual è la parte più difficile dell’essere Coach in un’organizzazione?
CC: La difficoltà maggiore è nella resistenza al cambiamento, e ciò su cui io faccio più fatica sono le dinamiche non esplicitate. Quando con le parole si danno determinati messaggi, ma con il corpo se ne comunicano altri, il meccanismo organizzativo si inceppa. In queste occasioni, la combinazione dell’esperienza come HR con le capacità da Coach che ho acquisito nel master facilita l’espressione del sentito delle persone, creando trasparenza e fiducia tra chi è coinvolto e insegnando a chi è nel mio ruolo come stare un passo indietro e non sostituirsi a chi invece deve stare al centro.
CN: Per me la difficoltà arriva quando a livello valoriale trovo una grande distanza da me: se non condivido quello che vedo devo richiamare tutte le energie che ho sul self management. Faccio fatica a lavorare con persone chiuse sul loro pensiero, che non si mettono in discussione, e purtroppo in molti contesti organizzativi è facile trovare situazioni di questo tipo.
Secondo la vostra esperienza, in che modo può evolvere il percorso di un Coach all’interno di un’azienda?
CC: Il percorso di Coaching dà l’opportunità di impostare le relazioni in nuovo modo, sia per sé che per gli altri. Dopo il mio periodo di formazione, mi è stato proposto di strutturare in azienda un percorso di leadership basato sul Coaching, non tanto come Coach, quanto come coordinatrice del progetto, facendomi quindi portavoce della Coaching culture. Credo sia questa l’evoluzione maggiore per un Coach interno: non è tanto ciò che si può fare quotidianamente, quanto riuscire a diffondere una cultura, portare davvero un cambiamento che prima ha agito su di me e poi a cascata coinvolge le persone a tutti i livelli.
CN: Il Coach può proporre all’organizzazione una serie di tematiche e approcci con un taglio legato al contesto organizzativo, facendo in modo di tenere insieme sia il ruolo che l’aspetto umano della persona che lo ricopre. Si possono creare delle Academy legate al Coaching, identificando persone cross organization per costruire percorsi finalizzati allo sviluppo di competenze o sulla leadership. Anche chi non diventerà mai Coach esterno, ma interno, può aiutare a diffondere un determinato tipo di cultura.
La cultura del Coaching si sta diffondendo sempre di più nelle aziende. In che modo questo ha un impatto sul modo di fare impresa?
CC: L’impatto maggiore della cultura del Coaching credo si manifesti sul tema degli alibi. Alessandro Rimassa diceva che “il fallimento diviene parte del processo di sviluppo e cambiamento dell’impresa”: il Coaching in un contesto aziendale può portare un cambiamento da questo punto di vista, prediligendo l’approccio del percorso a quello della cultura dell’obiettivo, della contrapposizione tra successo e fallimento, bianco o nero. L’approccio del Coaching, attraverso lo strumento del dialogo e con l’aiuto della sospensione del giudizio, sposta proprio la prospettiva riguardo all’errore: cambiare questo mindset significa vedere l’errore come una condizione che serve a raggiungere l’obiettivo, perché permette di lavorare su ciò che non ha funzionato e quindi di volta in volta avvicina un po’ di più alla destinazione.
CN: Il nostro motto, sia come SCOA che come Performant, è “enabling the Coaching culture“: più si diffonde la cultura del Coaching più il mondo organizzativo e la società possono migliorare. Se le persone trovano un equilibrio, sia dal punto di vista professionale che personale, imparano più anche su loro stessi e quindi, ampliando lo sguardo, la società ne trae beneficio. Allenare le competenze relazionali e gestionali è sempre un vantaggio per l’organizzazione.