«Volevo riflettere su che cosa rimarrà di quest’epoca, guardandola dall’alto» dice Christophe Palomar, autore del romanzo La crisi colpisce anche di sabato. Un romanzo che parla del mondo di oggi, ma da una prospettiva futura, senza giudizio ma con l’intenzione di comprenderlo meglio.
Perché hai scritto questo libro?
Penso che quando uno scrittore scriva un romanzo, cerchi solo successivamente delle giustificazioni per cui l’ha scritto. La verità è che non sei tu che scegli il romanzo, è il romanzo che sceglie te. Un po’ come la scintilla per le storie d’amore: noi analizziamo una storia d’amore solo quando è finita, non mentre ci siamo immersi.
Detto questo, il mio precedente romanzo è un romanzo storico, ambientato nel passato, e mi ha portato a lavorare per anni sul mondo della Repubblica di Weimar. Volevo cambiare un po’ aria, volevo raccontare il mondo di oggi come se fossimo nel 2050, e qualcuno chiedesse “come eravamo 20 o 30 anni fa?” è quindi un romanzo sull’oggi scritto però da romanzo storico: volevo riflettere su che cosa rimarrà di quest’epoca, guardandola dall’alto. Mi sembrava una prospettiva interessante per analizzare il contesto in cui viviamo, per capirlo meglio.
Mi piacerebbe che il libro arrivasse al mondo dell’azienda, in modo che anche chi legge pochi romanzi possa dire “visto che è anche un saggio che parla di politica, di economia, di psicologia e di Coaching, lo leggo”. Vorrei che le persone nelle organizzazioni si rendessero conto, tramite questa lettura, che vivono in gabbia: questo è forse il grande tema della crisi della nostra società.
Viviamo in gabbia. In che senso?
Siamo chiusi, sui social network ma poi anche nella vita, nelle cosiddette echo chambers: abbiamo l’impressione di affacciarci al mondo grazie ai social e a internet, ma di fatto ci mettiamo di fronte allo specchio, che riflette e moltiplica la nostra immagine, perché ci relazioniamo solo con persone che la pensano esattamente come noi, che riconfermano all’infinito le nostre credenze ed opinioni. Così non c’è dialogo, non c’è dibattito, non c’è incontro né scambio, perché non si trovano punti di intersezione, nei social come nella vita. Questo vorrei dire con il mio libro: uscite dalla comfort zone, per cominciare ad avere una percezione più realistica, una visione più ampia e completa di ciò che accade intorno.
Così, racconto questa crisi diventata metafisica, che viviamo da trent’anni e che attraversa tutti gli ambienti, passando attraverso tre racconti, tre luoghi e tre generazioni diverse: sono storie diverse che però in un certo modo si intrecciano, si incontrano.
Che rapporto hai con la scrittura? Cosa significa per te?
Non la concepisco come un mestiere, ma non è nemmeno un hobby: si tratta comunque di anni di lavoro, non è come il tennis che pratichi per un’ora a settimana. La scrittura è un ospite che hai dentro di te e che bussa alla tua porta. Ho nascosto questa mia propensione per anni, mentre lavoravo in azienda. Poi intorno ai 50 anni ho smesso di fare il dipendente, sono diventato Business Coach e mi sono dato alla scrittura: ho dato una sterzata alla mia vita. Ho capito che voglio fare l’uno e l’altro. C’è una parte di me molto attiva e socievole, che ama stare in mezzo alla gente, per cui faccio sia il Coach sia il consulente in azienda, e poi una parte di me più riflessiva, analitica e solitaria. Se smetto di fare una delle due, il Coach oppure lo scrittore, sto male, un po’ come chi fa il maestro di sci in inverno e l’insegnante di tennis in estate.
Il tuo ultimo libro è un romanzo: che stimoli pensi possa dare a chi legge questo genere letterario?
Il romanzo è l’unica cosa al mondo – non ce n’è un’altra – l’unico pezzo della realtà umana che ti consente di entrare dentro la testa di una persona. Se tu vuoi calarti nella vita di qualcun altro, se vuoi capire non le sue generalità, ma proprio da dentro come può essere la sua vita, l’unico modo è il romanzo. Se tu leggi Madame Bovary, tu sei una donna della provincia francese dell’800, vivi un’altra vita per 300 pagine. Se leggi Lo straniero di Camus sei quest’uomo dei quartieri poveri di Algeri degli anni ‘30, ti trovi nella periferia dell’Algeria coloniale e conduci la vita di uomo solitario condannato a morte per aver fumato al funerale della mamma. Ti avvicini a queste vite, ma non con la testa, bensì con le emozioni. Mentre il saggio parla alla testa, il romanzo è molto più incarnato, non affronta una tematica, non ti dice cosa è bene e cosa è male, ma ti apre la porta e ti butta dentro un altro mondo: questo è un allenamento molto potente anche per la vita in azienda, perché può cambiare il tuo approccio all’altro. In questo, il romanzo costituisce una palestra straordinaria: sei sul divano di casa, non è un rischio o uno sforzo estremo, ma puoi riflettere sugli altri, perché tu capisci di te quando cerchi di immaginare come gli altri ti vedono.
Un punto interessante: il romanzo implica il lasciarsi andare, cosa che può far molta paura, ma che può consentire di aprirsi, cambiare, riuscire a sbloccare certi aspetti di sé. In questo senso può costituire una difficoltà per alcuni, ma è anche una grande opportunità. A questo proposito, quali stimoli può offrire la lettura di un romanzo alle persone, anche nell’ottica di un percorso di Coaching?
In generale, il romanzo offre spunti di riflessione, apre prospettive. Ai miei Coachee e Mentee consiglio spesso di leggere: molti tornano dichiarando che hanno cambiato la loro vita. La letteratura ha a che fare proprio con la vita: tu entri nella testa di uno, la scoperchi e la abiti per il tempo della lettura.
Cito questo aneddoto: Freud ha scritto ad Arthur Schnitzler di aver capito la psicoanalisi solo leggendo il suo romanzo Doppio sogno, da cui tra l’altro poi Kubrick ha tratto il suo ultimo film. Freud senza dubbio ha costruito l’impalcatura, ha inventato lui la psicoanalisi, ma non è mai riuscito a incarnarla, cosa possibile invece con il romanzo. Con 100 pagine ti porti a casa l’intera opera di Freud, che arriva in maniera più diretta e immediata. Questo è anche ciò che fa il Business Coaching: noi Coach apriamo porte, non eroghiamo pezzi di sapere, ma facciamo in modo che le persone vivano meglio, che abbiano maggiore consapevolezza della loro vita, con tutte le sue diverse sfumature, la varietà di contesti, scenari, che si sovrappongono. Scrivendo questo romanzo ho meditato a fondo proprio su questa cosa: ci sono varie tematiche che si sovrappongono, si stratificano, così come nella vita, ma la persona rimane una, unica, nonostante tutte le sfaccettature.
Nello specifico il tuo libro, quali spunti utili offre sempre in quest’ottica di Coaching?
Rispondo facendo qualche esempio. Uno dei racconti ha per protagonista la storia di una dirigente, Gioia, che ripercorre in un registratore il suo percorso di Coaching: il Coaching non è così frequente nella narrativa italiana contemporanea.
C’è una scena in cui questa donna va nell’angolo del salotto per guardare dalla finestra, si gira e guardando la stanza si rende conto di non averla mai vista da quel punto lì, ma di essersi sempre fermata un metro prima. Comincia a riflettere sul fatto che anche solo compiendo quel piccolo segmento di spazio in più la prospettiva cambia, di poco ma è comunque diversa. Questo gesto fatto nella quotidianità apre una nuova consapevolezza, è molto impattante.
In un’altra scena invece, il fratello di Gioia, ragionando sull’identità dice “non siamo noi a dire chi siamo e da dove veniamo, sono gli altri”: è lo sguardo degli altri a dire chi sei. La cosa bella della letteratura – ed è pienamente in tema Coaching – che non c’è giudizio, non è interessante sapere se è vero o meno, giusto o sbagliato, la vera letteratura è la sospensione del giudizio: ti prendo per mano e ti butto in un’altra vita, poi ti recupero alla fine. Poi io che leggo posso dire se mi piace o meno, se mi sento vicino o lontano a ciò che ho letto, ma è una questione tua e questo ti dà anche molti strumenti per affrontare meglio la vita lavorativa.
Hai raccontato che la scrittura per te non è propriamente un mestiere. Quale connessione vedi allora tra questa attività e la tua professione di Business Coach?
Scrivendo questo romanzo, proprio per le storie raccontate, ho messo insieme le mie tre vite: quella di scrittore, quella di Business Coach, e anche quella di manager: è stato un po’ il momento in cui queste tre dimensioni, che erano andate ognuna per conto suo, si sono incontrate.
Ho cercato di mettermi nei panni dei personaggi senza giudicarli: nella letteratura la sospensione del giudizio è qualcosa di straordinario, un’arma potente. Lo scrittore non deve mai giudicare: non esistono vittime né carnefici, ma siamo tutti un po’ l’uno un po’ l’altro, e cambiando punto di vista cambia l’approccio, cambia il contesto. Come dicevo, la letteratura ti fa entrare dentro la testa di un’altra persona; non è strutturato, è tutto molto fluido, tu sei quella persona lì. E noi che ci occupiamo di Coaching, quanto amiamo gli altri, quanto cerchiamo di entrare nella testa degli altri? Quello della letteratura è un esercizio straordinario.