Una necessità. Così Rosy Bonfiglio, Business Coach, attrice e cantante spiega il suo libro: «quella di offrire alle persone un varco di riflessione e di speranza, un pensiero di fioritura laddove tutto sembrava sterile e arido, la vita in una stasi». Nei giardini dell’Erebo è una raccolta di poesie, scritte negli anni e poi riposte nel cassetto fino al primo lockdown. Solo in questo periodo difficile, delicato a livello esistenziale e lavorativo – che l’autrice ha vissuto in primo luogo come artista – il libro ha trovato la sua destinazione.
Com’è nato il tuo libro?
Ho iniziato a scriverlo diversi anni fa, intorno al 2016. Aveva nella forma qualcosa di diverso dagli altri miei scritti, era meno casuale, ma comunque in fase di stesura non c’era da parte mia l’intenzione di pubblicarlo né di farlo diventare una raccolta. Era semplicemente una cartella sul desktop del mio pc, in cui inserivo i file con ciò che scrivevo. Dopo aver scritto l’ultimo componimento senza sapere che sarebbe stato l’ultimo, però, ho capito che qualcosa si era concluso, guardando a ritroso ho percepito che fosse qualcosa di compiuto in sé.
Non l’ho pubblicato subito, è finito nel cassetto: non riuscivo a capire che destinazione dovesse avere. Poi è scoppiata la pandemia. Il primo lockdown è stato un momento molto delicato dal punto di vista esistenziale e artistico, di grande riflessione. Accusavo fortemente la ferita generale del mondo dell’arte e ho cominciato ad interrogarmi su quale fosse il valore dell’arte in un mondo che non la riconosce, o perlomeno non ne riconosce pienamente l’utilità e la necessità. Mi chiedevo cosa io potessi dire in uno scenario del genere. E lì ho avuto una strana illuminazione, rispetto a questo libro che aveva già il titolo attuale: portava con sé il significato di vita e rinascita – i giardini – in un mondo di oscurità e tenebre – l’Erebo. Ho visto la possibilità concreta di seminare fisicamente con l’oggetto libro un messaggio di rinascita, come un messaggio di speranza dentro la bottiglia. Mi piaceva che il libro potesse entrare nelle case di tutti e fungesse da spazio di incontro, in un momento in cui incontrarsi era altrimenti impossibile.
Nel giro di 48 ore l’ho pubblicato: non mi interessava passare per la trafila editoriale, ma solo che il libro rispondesse in modo puntuale a quel momento preciso, in cui per me era chiara la sua necessità.
Che rapporto hai con la scrittura?
La scrittura mi accompagna da sempre, è sempre stata una mia esigenza personale.
Per me è un modo di sentire e di rielaborare ciò che vedo e vivo. Mi capita molto spesso di andare in giro, osservare e avere il continuo bisogno di trasferire in scrittura quello che i miei sensi elaborano. È un canale di sintesi tra il mondo esterno e il mio mondo interiore. Un modo di razionalizzare, di creare uno spazio altro che non sono completamente io, non è completamente l’esterno ma è l’incontro dei due.
È proprio una modalità di espressione, il racconto di un punto di vista: non mi sento vincolata ad uno stile, una forma o un linguaggio particolare. Non mi definirei poetessa infatti, scrivo anche molta prosa, articoli, appunti.
Come mai in questo caso hai scelto proprio la poesia?
È un genere che si lega alla musica, altro mondo che io frequento abitualmente, e più in generale all’universo sonoro, con cui sono solita lavorare, soprattutto nella scrittura, sia essa destinata esplicitamente alla musica sia per altre finalità. Questi componimenti non sono infatti di poesia classica, sono piuttosto delle partiture linguistiche. Anche per questo, dopo la pubblicazione le ho convertite in un progetto digitale rendendo alcuni componimenti delle poesie sonore: la conversione è avvenuta in modo spontaneo e naturale.
Non c’è però un motivo particolare per la scelta di questo genere letterario. Semplicemente in quel periodo di tempo i miei pensieri assumevano queste forme cellulari, non si articolavano in un flusso continuo, come nella narrativa, ma erano come degli scatti, delle fotografie di tanti momenti. Mi accade spesso, per cui Nei giardini dell’Erebo non costituisce un caso a sé. Ho terminato una seconda raccolta, molto diversa dalla prima e ancora inedita, all’inizio del 2021.
Come hai raccontato, hai pubblicato questa raccolta proprio con l’intenzione di portare una speranza, perché sentivi la necessità di offrire un’apertura, uno spazio di riflessione, di conforto alle persone. In generale, quali stimoli può offrire la lettura alle persone?
Le parole ci danno possibilità di aprire innumerevoli porte dentro di noi, generano consapevolezza, perché non sono le nostre, non sono i nostri discorsi: è qualcosa che riconosciamo e con cui abbiamo familiarità, ma con cui non coincidiamo e non ci identifichiamo. Leggere qualcosa che è altro da me mette una distanza che consente di avere una visione più lucida e ampia, è una chiave preziosissima per trovare informazioni e significati utili.
Quando ero in Accademia studiavamo l’analisi del testo, in modo da acquisire gli strumenti per capire come orientarsi dentro le parole che si leggono, per coglierne tutta una serie di significati utili in quel caso alla messa in scena e all’interpretazione. Allo stesso modo in un contesto diverso diventano utili per capire anche come noi stessi funzioniamo, quali significati riusciamo ad esprimere, è una palestra molto efficace.
E più nello specifico la poesia, invece, in che modo può costituire uno stimolo per chi legge?
La poesia apre porte legate al subconscio, riesce a parlare ad una dimensione altra da quella razionale, proprio perché non sempre è logica, non ti restituisce qualcosa di descrittivo o esplicito, ma fa piuttosto uso del linguaggio come segno, che evoca i significati. Riesce a parlare alla nostra intelligenza più profonda e sottile e riesce così ad aprire consapevolezze in modo più immediato. La poesia poi contiene spesso archetipi: parlano alla nostra natura più antica e saggia per certi versi, parlano ad una sapienza che non sempre teniamo in considerazione ma che è parte del nostro bagaglio di esseri umani.
Io ho una profonda fiducia nel potere della poesia: ho anche creato un percorso di Poetry Coaching, per cui durante le sessioni il Coachee è guidato nella lettura o nella recitazione di un testo poetico, per trovare significati per se stesso. Si crea uno specchiamento del soggetto nelle parole che a volte a primo impatto sembrano lontane e invece costituiscono una via per mettere a fuoco parti di sé o delineare obiettivi passando da una strada meno razionale ma più immediata.
Che tipo di stimolo costituisce la scrittura e che benefici può dare anche nell’ottica del Coaching?
La scrittura è un allenamento fantastico, mette insieme diversi passaggi: l’osservazione e l’ascolto di ciò che accade, la lettura critica, l’interpretazione, la rielaborazione e poi una restituzione in un’espressione nuova. È un atto creativo rispetto alla lettura della realtà. Scrivere cosa accade durante la giornata, ciò che facciamo, i momenti salienti, è molto utile perchè aiuta ad allenare l’analisi e la sintesi e a fare un lavoro di selezione. Una volta che metti per iscritto un pensiero e gli permetti di cristallizzarsi sulla pagina o sulla schermo del pc, stai individuando nel mare infinito e fluido di tutto ciò che vivi e fai dei segmenti, degli scatti da mettere più a fuoco, come se stessi mettendo una cornice a ciò che è davvero rilevante.
Questo è molto utile anche nelle dinamiche del Coaching, ti permette di avere una lettura esterna, di non coincidere unicamente con i comportamenti che metti in atto ma di fare un passo indietro e guardarti da fuori per trarne qualcosa, leggerne informazioni utili.
Vorrei aggiungere poi che esercitarsi, sia nella lettura che nella scrittura, permette di frequentare la lingua in modo differente. Il linguaggio è il mezzo attraverso cui entriamo in contatto con il mondo, ed è anche uno dei mezzi più consistenti ed espliciti che abbiamo per comunicare con l’altro e con noi stessi. Averne una conoscenza il più ricca e variegata possibile allarga la capacità di lettura, perché ci permette di cogliere sfumature che abbiano un corrispettivo verbale, che nel loro connotarsi verbalmente assumono per così dire più esistenza.
Questo è un punto molto interessante. In effetti, il nostro livello di conoscenza del lessico incide direttamente sulla nostra visione e percezione del mondo: più termini conosciamo più pensieri abbiamo. Banalmente, quando in una lingua manca la parola per esprimere quel preciso concetto, manca anche il concetto. In quest’ottica, la lettura aiuta ad acquisire più familiarità con la lingua, la scrittura ti mette addirittura in cerca di nuovi modi di esprimersi.. Che consiglio daresti a chi sceglie di cimentarsi in questa attività?
Come prima cosa direi di chiarire quale sia la necessità, chiedendosi “perché voglio farlo? per chi?”. In secondo luogo, direi di allenarsi sulla sospensione del giudizio, che è in assoluto il più grande ostacolo alla scrittura. Sospendere il giudizio su quello che si scrive serve per lasciar fluire i pensieri, ascoltarli e buttarli giù, trasferirli così come vengono sulla carta. È uno dei passaggi più delicati e difficili: si tratta di lasciarsi andare, di dar voce a se stessi, poi c’è sempre tempo per rivedere quanto scritto e fare modifiche. In realtà anche in questa fase di revisione sono richiesti dei piccoli salti mortali! È richiesto ad esempio il coraggio di lasciar andare: di buttare via cose che eventualmente, rileggendole, non ci piacciono, non si capiscono, non funzionano. È richiesto di non affezionarsi, neanche a quelle cose che mentre scrivevamo sentivamo molto intensamente. Anche in questo, la scrittura è un buon allenamento per metterci al servizio di ciò che è veramente utile ed efficace, imparando a lavorare sul nostro ego e sulle nostre vanità.