In copertina | Martin Belou, Demain les chiens, 2019, “Future, Former, Fugitive”, Palais de Tokyo. Foto di Anja Puntari
Il lockdown ci ha riproposto con veemenza il tema della libertà.
Forse, ci ha aiutato a prendere coscienza di quanta libertà avevamo già sacrificato molto prima della pandemia senza accorgercene, come la famosa rana che muore bollita nell’acqua scaldata lentamente perché non ha più le forze necessarie per reagire ed uscire dalla pentola, come racconta il filosofo Noam Chomsky .
Mi ricordo di un seminario con il gruppo dirigente della filiale svizzera di una grande impresa multinazionale. Si lamentavano di perdere un sacco di tempo facendo cose inutili richieste dalla centrale.
Li invitai, allora, a fare una lista di tutte queste attività superflue e successivamente di sceglierne una che avrebbero cessato o che si sarebbero rifiutati di fare dal giorno seguente. L’allegria che si era sviluppata mentre compilavano le liste cessò di colpo quando si trattò di scegliere a cosa rinunciare. «Non è possibile!» fu l’unanime commento.
Le maglie del sistema in una multinazionale possono essere strettissime. Pur trovandosi ai piani alti della gerarchia, il gruppo aveva interiorizzato a tal punto le regole del sistema da non riuscire più ad immaginare di poterle interpretare liberamente.
Va detto anche che, le stesse regole, permettevano loro di imporre ai loro collaboratori comportamenti e obiettivi da seguire perché «non è possibile fare diversamente».
Come questi dirigenti svizzeri, parecchi miei clienti soffrono la mancanza di libertà nel contesto del loro lavoro e io sono convinto che il coaching, soprattutto se ispirato al pensiero sistemico, possa essere uno strumento valido per riconquistare spazi di maggior libertà.
Un primo passo è la presa di coscienza, e spesso la riscoperta, dei propri desideri.
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Alessandro Baricco scrive nel suo romanzo Oceano Mare: «…ho capito tardi da che parte bisognava andare: dalla parte dei desideri. Uno si aspetta che siano altre cose a salvare la gente: il dovere, l’onestà, essere buoni, essere giusti. No. Sono i desideri che salvano. Sono l’unica cosa vera. Tu stai con loro, e ti salverai».
I desideri si formano nella nostra mente nei primissimi anni di vita, se non addirittura nei primi mesi, e sono capaci di attivare il nostro potenziale e le nostre energie. Sono la fonte della nostra volontà e della fiducia nell‘autoefficacia. Sono i desideri che ci inducono a cercare la libertà di sviluppare tutta la ricchezza del nostro potenziale. A patto, però, che li riconosciamo e li seguiamo.
Purtroppo però, troppo spesso la nostra attenzione è deviata da altri fattori che impediscono che il desiderio si possa sviluppare e trasformare in una chiara intenzione, in una volontà cosciente.
Alcuni di questi fattori devianti, forse tra i più insidiosi, sono proprio i criteri di performance e di successo dell’azienda. Noto infatti che molti manager li assimilano, si identificano con essi a tal punto da non percepirne più i condizionamenti, non solo nel loro modo di agire, ma addirittura nel loro sentire e pensare.
Non è che tutti i criteri di performance e di successo siano a priori sbagliati o dannosi. L’aspetto problematico emerge nel momento in cui si perde la capacità di dissociarsi da essi, di riflettere sulle implicazioni, di valutarne la coerenza con i propri desideri e valori.
Nel coaching possiamo aiutare il cliente, che ha preso coscienza dei suoi desideri, a riconoscere gli ostacoli che dovrà superare, i vincoli che dovrà accettare, le risorse che dovrà attivare e il prezzo che dovrà pagare per sviluppare una volontà cosciente e coerente, capace di guidare le sue decisioni e azioni, rendendo più liberi i propri pensieri ed efficace il proprio operato.