Perché il Team Coaching è fondamentale: intervista a David Clutterbuck

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Abbiamo intervistato David Clutterbuck, autore e padre del Team Coaching, per capire di più su quali sono gli aspetti principali di questa disciplina e quali sono i motivi per cui sempre più aziende di tutti i principali settori ne sentono la necessità.

  • In base alla sua esperienza, in che modo i leader stanno iniziando a utilizzare il Team development e il Coaching come uno strumento strategico per raggiungere risultati di business?

Recentemente gli HR directors si sono trovati davanti alla necessità di porsi una domanda: qual è il focus su cui possiamo agire? E la risposta è: il team. Si sono sempre di più resi conto, infatti, che il team è il futuro per le aziende, oltre che l’unico modo per sopravvivere. Questo però comporta anche una sfida, che è la gestione dell’individualità, che molto spesso può essere un ostacolo al lavoro di team.
Viviamo in un mondo che è sempre meno incline a perdonare gli errori, soprattutto se hanno un impatto negativo a vari livelli: lavorare sui team significa lavorare sulla complessità, allargare la propria visione, prendere in considerazione tutte le sfumature. E questo si traduce in un lavoro più efficace rispetto al passato per i lead team, che oggi hanno anche l’opportunità di diventare dei modelli di riferimento per le organizzazioni.

  • Da esperto di Team Coaching, che cosa vedi quando osservi un team performante e cosa invece noti che manca in un team che non performa altrettanto bene?

Quando si paragonano team differenti sono tanti gli aspetti che entrano in gioco. Uno su cui però vale la pena soffermarsi con più attenzione è la tipologia di persone che si unisce ai team: ogni volta che un team acquisisce una persona nuova questa porta con sé qualcosa di speciale, di unico. Nei team altamente performanti il bagaglio di una nuova persona viene accolto perché favorisce un cambiamento e genera un apprendimento, sia a livello individuale che collettivo. L’entusiasmo e la motivazione fanno la differenza, in quanto danno una spinta ulteriore all’organizzazione. Altrettanto importante è anche guardare al leader, che ha il compito di creare un ambiente che ha a cuore le persone, che è solido e che ha coraggio. Tutti questi aspetti molto spesso mancano nei team poco performanti.
Mi sono ritrovato a chiedermi: l’atteggiamento è il risultato o la causa delle performance di alto livello? Molto spesso è la causa, è alla base, ma c’è sicuramente un movimento, un’interazione tra i due elementi che fa sì che atteggiamento e performance si influenzino a vicenda.

  • In che modo il Team Coaching può facilitare l’integrazione multiculturale?

Quando in un team ci sono caratteristiche di multiculturalità, il lato bello della medaglia è che c’è molta più creatività potenziale, quello brutto è che rischiano di esserci anche molti più conflitti. Ciò che si verifica all’interno dei team altamente performanti è la combinazione tra un alto livello di diversità e un buon modo di valutare e relazionarsi con questa diversità. Lavorare sul Team Coaching significa quindi capire il valore della diversità che ciascun collaboratore porta con sé, favorire lo scambio evitando le ghettizzazioni, sfidandosi quotidianamente in maniera positiva e costruttiva. Perché se alla base del conflitto ci sono le relazioni o le personalità, allora il risultato non può essere niente di buono, ma se al contrario il conflitto è basato sulle idee, allora lì si crea lo spazio per la creatività. L’integrazione avviene quando le persone sviluppano la capacità di comprendersi a vicenda, mettendo da parte le priorità personali per raggiungere un obiettivo maggiore e collettivo.

  • Lei ha scritto un vasto numero di libri sul Team Coaching. Ritiene che ci sia ancora spazio per migliorare le metodologie e le tecniche? Come?

Negli ambienti di lavoro la complessità sta aumentando sempre di più e insieme a questa aumenta anche l’imprevedibilità. È importante quindi riuscire a sviluppare un mindset che miri ad abbracciare la complessità e l’imprevedibilità. Se prendiamo come esempio la letteratura sulle modalità di funzionamento dei team, ci accorgiamo che prevalentemente si tratta di modelli lineari, che spiegano in che modo risolvere i conflitti. Ma il conflitto non è la malattia, è il sintomo di qualcosa che succede in background. Quindi è evidente che il modello lineare non può funzionare. Ci sono alcuni modelli che si definiscono sistemici, ma anche questi non sono attendibili perché non riescono davvero a guardare al sistema nella sua completezza e complessità. Io ho sviluppato un modello differente che si chiama Perill model che, al contrario degli altri, si concentra sulle dinamiche che intercorrono all’interno del team, quindi lascia spazio alla complessità: questo autorizza le persone che compongono i team stessi a guardare al sistema da un punto di vista più approfondito e consapevole e quindi a capire come possono fare la loro parte per influenzare il sistema di cui fanno parte.

  • Parliamo di Team Coaching nell’era post pandemica: in quale aspetto il nuovo modo di lavorare è diverso, se lo è, rispetto a prima del 2020?

Osservando HR director di tutta Europa, mi è risultato evidente che la maggioranza dei leader ha un modo di agire obsoleto, principalmente per due motivi: innanzitutto perché sono linear thinkers e secondariamente perché non sono in grado di adattarsi alla nuova realtà della leadership. L’aspetto che viene più difficile da accettare è il non dover avere il controllo su tutto. Il nuovo (e più efficiente) approccio che le aziende stanno adottando è quello di trovare modi che permettano al team leader di avere abbastanza sicurezza da lasciare che il team prenda maggiori responsabilità. È una sicurezza che deve essere bilaterale, in quanto se il leader deve fidarsi del team, allo stesso tempo il team deve sapere che il team leader concede spazio alle persone. Il Team Coaching, quindi, si concentra proprio su questo cambiamento e lavorando sia sul leader che sul team allo stesso tempo li aiuta a sviluppare un metodo adatto a loro per procedere in questa direzione.

  • Il numero di persone che studiano per diventare Coach, a livello mondiale, sta crescendo? Perché, secondo lei?

Al giorno d’oggi ci sono decine di migliaia di persone che stanno studiando per diventare Coach, che è un numero altissimo. I motivi sono molteplici: c’è chi è andato in pensione e vuole reinventarsi, c’è chi lavora nell’HR e ritiene che il Coaching sia un metodo fondamentale, ci sono leader che credono nella Coaching culture e vogliono portarla nella loro azienda. In un mercato così affollato, però, per farsi notare bisogna riuscire ad andare oltre le competenze di base: anche perché ormai ci sono anche dei tool di AI che possono fare molto riguardo al “livello base” del Coaching, in alcuni casi anche meglio delle persone. La marcia in più che hanno gli esseri umani rispetto all’AI, però, sta nella capacità di mettere da parte le procedure e creare dei momenti di apprendimento differenziati in base al cliente. La differenziazione è fondamentale. Studiare per diventare Team Coach in questo senso è anche un investimento su se stessi: perché significa avere gli strumenti per differenziarsi sul mercato, andare oltre le competenze base del Coaching, dare più valore ai propri clienti perché si riesce ad offrire di più rispetto al livello zero.

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