Lo specchio riflette esattamente ciò che vede: non sbaglia perché non pensa.
Paulo Coelho
Così scrive lo scrittore Paulo Coelho nel suo libro “L’Alchimista”, offrendoci un interessante spunto di riflessione sulla preziosa oggettività di cui questo antichissimo strumento di vanità è fonte.
Parlando di ruolo, durante il nostro evento Alumni del 26 novembre 2019 abbiamo approfondito e riflettuto sul rapporto che ciascuno ha con la propria “proiezione” e sulla capacità di guardarsi “dal di fuori”, riflessi su di una superficie che ci restituisca l’immagine medesima che il mondo, la società, gli altri in generale, vedono quotidianamente di noi.
Tanti gli esempi nell’arte e nel cinema che fanno riferimento a questo topic, dal mondo fantastico delle fiabe dei Grimm – l’intramontabile Grimilde di Biancaneve – fino a quel mostro sacro di Charlie Chaplin nel film The Circus, e la lista è certamente molto più lunga.
Ma perchè lo specchio è un oggetto così potente?
Lo specchio è il luogo dell’incontro che abbiamo con noi stessi. È lo spazio in cui ci guardiamo, ci osserviamo, ci contempliamo e … dove possiamo conoscerci. Lo specchio permette di vedere se stessi, il proprio aspetto, ammirare la propria fisicità. Ci fa sì vedere noi stessi, ma in modo speculare, e colui o colei che incontriamo è un altro “io”.
Lo specchio infatti è una porta tra due mondi: tra uno conosciuto e uno parallelo legato a un mondo interiore, quello dei sogni, dei pensieri intimi, di un vissuto privato.
Oltre ad essere un simbolo dell’inganno, della fugacità e della vanità, lo specchio rappresenta anche il suo contrario: la verità, l’eternità, la realtà.
Ciò avviene per due motivi: da una parte questo oggetto è un monito verso ciò che è fasullo e invita a vedere il mondo e se stessi per ciò che sono; dall’altra, è in grado di mostrare i lati nascosti del mondo, soprattutto ciò che esso nasconde alle sue spalle.
Da un ruolo all’altro
Lo specchio rappresenta anche un momento di passaggio dove ci spostiamo da un ruolo all’altro. Il ruolo e lo specchio sono strettamente correlati poichè davanti allo specchio ci vestiamo o ci spogliamo dei connotati esterni del personaggio, come il trucco o l’abbigliamento. Per l’attore questo momento è particolarmente importante poichè letteralmente si trasforma dalla sua individualità di attore nelle vesti del ruolo che va ad interpretare.
Dice l’attore Gennaro Iaccarino: “Avere un ruolo statico crea delle frustrazioni interne ed esterne. Siamo sempre in continua evoluzione. La vita ci cambia e la cosa più giusta (e complessa) è stargli dietro. A questo punto pare che il personaggio più semplice paradossalmente da riproporre sia proprio quello richiesto in scena a noi attori. Lo tieni li. Lo costruisci. Lo cambi. Lo distruggi. Puoi farlo. Nella vita proprio no.”
Leggi la nostra intervista a Gennaro Iaccarino sul blog di SCOA – The School of Coaching.
È comunque evidente che anche chi non interpreta il proprio ruolo in un teatro o davanti alla telecamera, lo prepara “dietro le quinte”, prima di entrare sotto i riflettori della propria realtà lavorativa. A casa nostra o tra i nostri amici non siamo certamente uguali a come siamo nella veste professionale.
Il sociologo Erving Goffman parla, in questo frangente, di due luoghi in cui le persone rispettivamente “indossano” il loro ruolo e lo preparano: lo spazio di ribalta, il palcoscenico, e lo spazio di retroscena, le quinte.
Nello spazio di retroscena le persone si “vestono” e “specchiano” preparandosi alla rappresentazione o nel nostro caso, la performance, che avverrà nello spazio di ribalta. Quando siamo in ascensore e ci risistemiamo il trucco o la cravatta ci stiamo muovendo nello spazio di retroscena, pronti per affrontare quello di ribalta, ad esempio l’ufficio.
Il Coaching come specchio?
Quando mi guardo nello specchio, cosa e chi vedo? Soprattutto: cosa provo? Riconoscimento, apprezzamento, repulsione, sorpresa, disagio, soddisfazione, divergenza, addirittura rabbia: queste e tante altre sono le possibili emozioni che l’osservazione di noi stessi ci può suscitare.
Affrontare questo delicato confronto da soli non è affatto semplice, specie se oltre all’aspetto più esteriore – guardo il mio corpo, il mio viso, il mio aspetto – consideriamo quello relativo ai nostri comportamenti e atteggiamenti, generalmente ben visibili e riconoscibili dalle persone con cui interagiamo, ma non sempre altrettanto da noi stessi.
Il Coaching rappresenta in tal senso uno specchio straordinario: per rifarci alla citazione di Coelho, il Coach è chiamato in qualche modo a “non pensare”, ossia a non sovrapporre la propria personale e soggettiva visione delle cose a ciò che accoglie e riceve dal Coachee.
Deve essere abile a mantenere una delicata “imparzialità”, in grado di restituire fedelmente e puntualmente l’agito del Coachee, e non solo. Parlando di feedback, ad esempio, anche il sentito sotteso al racconto di un episodio e in generale ai contenuti che il Coachee porta in sessione, diventa “immagine” utile da cristallizzare dentro lo “specchio-Coach”, per facilitare l’individuo nel suo processo di osservazione e consapevolezza del proprio sè.
Abituati come siamo a osservare, ascoltare, giudicare gli altri, perdiamo sempre più contatto con quello spazio di riflessione “di” noi stessi: abbracciarci nella cornice metaforica di uno specchio – sia esso appeso a una parete o in carne ed ossa! – ci permette di avere uno sguardo più focalizzato e attento. Significa dedicare tempo e cura alla consapevolezza di chi siamo, di come agiamo e di cosa comunichiamo all’esterno, senza smarrirci nella moltiplicazione confusa di valutazioni sfocate ed ingannevoli, che si basano quasi sempre su sensazioni e pregiudizi frettolosi e superficiali.
È così che costruiamo le basi di un amore sano per noi stessi, fondamentale per mantenere relazioni personali e professionali costruttive.
Per l’approfondimento sul tema del luogo di ribalta e retroscena, ti consigliamo il saggio Sociologia della comunicazione interpersonale di Federico Boni.